Arezzo 9 settembre 2011: FRANCO BATTIATO IN CONCERTO

 f battiato arezzo 

<Occhio, che la campagna è dura> mortificò l’ entusiasmo il mio vicino, una ventina d’anni orsono, quando ci trasferimmo in questo luogo. In effetti, a fine agosto, mi prende una leggera nausea per l’erba, il tubare delle tortore, i pomodori che dalla pianta stressata chiedono < quando ti decidi a trasformarmi in conserva?>, i molti lavoretti di manutenzione e riordino che ci sarebbero da fare, ma l’afa vince la volontà. Perfino il mattutino volo delle upupe perde il suo fascino. Il concerto di Battiato mi è sembrata un’occasione ghiotta per uscire dall’impasse.

A chi chiedere di accompagnarmi? Ho provato con mio marito. Dice sempre <ogni lasciata è persa>, ma ho subito compreso dall’espressione <se proprio vuoi, ma io lascerei volentieri> che non era il caso di forzarlo. Di invitare le mie due o tre amiche, visto il costo altino del biglietto, non era da farsi. Con poche speranze, ho tentato con Michele che a diciassette anni decretò <insieme a voi non vengo più>. Vhhuuummmm, ha risposto subito sì. Così mi sono trovata in auto con un fusto ventiduenne. Acc., non immaginavo che prendesse le curve peggio di suo padre. Comunque, fendendo pure le bancarelle fitte della Fiera del mestolo, siamo riusciti a parcheggiare, affrontare il caliente bagno di folla della fila e finalmente ci siamo seduti al lume di luna, nello spazio dell’anfiteatro, che duemila anni fa gli aretini romanizzati usavano per le battaglie navali.

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Tanta gente, molti suppergiù della mia età, ma nessuno che conosciamo; possibile che siano ancora in vacanza e poi numerosi devono essere quelli venuti da altre città.

Sul palco lo staff che prepara gli strumenti. Entrano in scena il chitarrista, il bassista, il Quartetto Italiano d’archi ( Michi esulta), il tastierista, il batterista…ma quanti sono? Il pianista. Il maestro.  Ovazione.

Up patriots to arms. Senza respiro. Un pensiero nero: ho dimenticato la fotocamera buona, addio filmino. Affannosamente cerco in borsa, trovo la mia scassatissima fotocamera, la provo: esito deludente e in aggiunta si scarica subito; provo a fotografare con il cellulare, uguale. Sudo per l’ansia, mentre il cantante attacca L’era del cinghiale bianco. Michele suggerisce <lascia perdere, immergiti nella musica>, vorrei recriminare <potevi pensarci tu>, ma m’immergo. Il maestro sembra sereno, ieratico; è lì con i suoi pezzi storici e non, e ce li porge senza enfasi alcuna. In quasi due ore di musica e parole, interviene direttamente solo con  qualche breve battuta. Ci contagiano le sfumature del suo pensiero sociale, spirituale, intimo.

E’ come entrare nella magia di un film francese anni sessanta, quando interpreta La chanson des vieux amants di Jacques Brel. Poi esplode con Voglio vederti danzare. Dal fondo corrono sotto il palcoscenico; mi alzo in piedi insieme agli altri, comincio a dimenarmi, a gesticolare; forse sono ridicola, non ho mai imparato a ballare davvero, ma non m’importa: mi faccio trascinare dalla musica e ancora e ancora. Annuisco ad una signora che mi sussurra con orgoglio <ma che bravi che sono i nostri cantautori>.

Quando se ne vanno, partecipo convinta al richiamo <fran-co fran-co> e Franco ritorna tre volte,   scegliendo pezzi sempre più lenti e acquietanti; spegnendoci con delicatezza.

Poi anche le luci si spengono, lo staff riemerge, il pubblico sciama.  Michi mi spiega l’importante lavoro dei tecnici del suono, il valore individuale dei musicisti. Mi guardo intorno: abbiamo tutti espressioni soddisfatte.